Le-antiche-concerie

Le Vecchie Concerie erano collocate sulla sponda sinistra del fiume Temo e nel 1989 sono state dichiarate monumento nazionale. Ancora oggi si possono ammirare gli antichi edifici che le ospitarono testimoni ormai silenziosi dell’antica vocazione della città di Bosa. Descrivendo la valle attraversata dal Temo, dove sorge la città di Bosa, il conte Della Marmora, presenta per la prima volta il complesso di Sas Conzas, le antiche concerie.

Si tratta di una schiera di edifici a due piani con tetto a doppio spiovente e grandi finestre costruiti nella prima metà dell’ottocento lontano dal centro abitato per via dei cattivi odori prodotti durante le prime fasi di lavorazione delle pelli, ed in posizione strategica vicino al fiume per l’approvvigionamento idrico. Rappresentano per la cittadina la testimonianza ed il segno di una borghesia moderna e dinamica, fortemente motivata in età piemontese e nell’Italia post-unitaria in contrasto col fermo dell’età spagnola.

In realtà, la tradizione conciaria a Bosa risalirebbe almeno ai tempi dei romani, se non addirittura ad epoca più antica e sarebbe perdurata sino alla metà del novecento quando l’ultima conceria chiuse definitivamente i battenti. La produzione era all’avanguardia e molto apprezzata nella penisola e all’estero e si specializzò ben presto nella produzione della “vacchetta”, utilizzata fra l’altro nel campo della rilegatoria. Sono dunque comprensibili le ragioni per le quali Bosa abbia costituito una felice eccezione nel panorama sardo quando, intorno al 1870, si verificò un forte peggioramento del rapporto tra importazione ed esportazione. Il flusso delle pelli bosane verso Genova e la Francia proseguì ininterrottamente per tutto l’Ottocento. La particolarità bosana non era dovuta solo alle innovazioni dei sistemi di lavorazione; si verificò ben presto anche una moderna organizzazione delle imprese che, concentrando la proprietà in poche famiglie, eliminò l’accentuata frammentazione produttiva della prima metà dell’Ottocento. Le 28 imprese registrate dal padre Vittorio Angius nel 1834, nel Dizionario del Casalis, cominciarono a ridursi a 23 nel 1860 e a 15 nel 1887. La ditta dei Fratelli Solinas e Mocci Marras da un lato e la ditta Sanna Mocci dall’altro avevano iniziato quel processo di concentrazione industriale che porterà quest’ultima famiglia a gestire, intorno al 1950, l’unica e ultima grande impresa conciaria cittadina. Mutamenti ai quali, oltre che al contesto politico ed ideologico che caratterizzò la Sardegna e Bosa nella seconda metà del secolo, si deve l’istituzione nel 1868 della Società Operaia di Mutuo Soccorso, organismo particolarmente impegnato nella difesa dei lavoratori del cuoio: tra i soci figuravano conciatori, sellai, calzolai, bottai. Alle dinamiche da prima rivoluzione industriale inglese della Mocci Marras, che giungeva a licenziare gli operai che non comprassero dal suo spaccio la carne ed i prodotti agricoli, i lavoratori dovettero rispondere con una più moderna arma di difesa: lo sciopero del 1902, come ricorda Girolamo Sotgiu. In concomitanza con il secondo conflitto mondiale, nel 1942, le ditte Solinas e Mocci Marras erano scomparse e i fratelli Sanna Mocci, che avevano una potenzialità produttiva di 30 quintali mensili di cuoio, si affiancò la conceria di Giovanni Contini (15 ql mensili), entrambe contingentate a causa dell’evento bellico. Di queste 2 concerie, fra quelle della provincia di Nuoro, la Sanna Mocci era la sola attrezzata e risultava pienamente rispondente (S. Ruju, 1988). L’attività della ditta Sanna Mocci, ampiamente conosciuta in Sardegna, ottenne uno degli ultimi riconoscimenti che il settore conciario sardo ebbe fuori dall’isola: alla società vennero infatti assegnati, alla fiera internazionale di Roma del 1924, il gran premio e la medaglia d’oro. Fin dagli inizi del Novecento, acquistando macchinari più moderni dalla ditta Zanelli di Torino, la Sanna Mocci aveva ulteriormente rivoluzionato i sistemi di lavorazione, utilizzando erodina al posto di escrementi di cane; vennero allora introdotti i bottali per agitare le pelli (prima smosse con bastoni dai manovali), i cilindri per passare il cuoio, le palmellatrici e le sbiancatrici per rasare e stirare le pelli. Continuarono a restare in uso i famosi ferri: de ilmasciare, che servivano per togliere il pelo dalla pelle assieme ad un cavalletto di pietra; de iscaranare, per la scarnificazione; de bussare, per stirare dopo almeno quattro mesi di lavorazione; de rasigare, per l’ultima rifinitura (E. Sanna 1977). Dagli anni Sessanta in poi il salto sarebbe dovuto essere più radicale e ampio: nessuno ebbe la forza e l’interesse per affrontarlo, decretando la chiusura definitiva delle concerie.

Aspetti architettonici e urbanistici – L’ubicazione dell’industria conciaria, vero e proprio quartiere di Bosa lungo la riva sinistra del fiume Temo, dipende direttamente dalla necessità di usare in grande quantità l’acqua salmastra nella lavorazione delle pelli. L’attuale lunga schiera di edifici costituisce la rielaborazione architettonica ottocentesca; essa presenta una tipologia a due piani, modulare e timpani affiancati. La “concia tipo” è formata da un ambiente a piano terra, dotato di una o più vasche in muratura; è qui che avveniva la lavorazione iniziale delle pelli, mentre al piano superiore, più asciutto, si procedeva alla rifinitura. Gli edifici, realizzati in muri portanti di pietra e fango, o pietra e calce, sono intonacati e dipinti con calce e polvere trachitica. Per le pedate dei gradini si è ricorso alla trachite liparitica locale di varietà rosa, come anche per stipiti e architravi di porte e finestre o anche per i rivestimenti basamentali e alcuni particolari degli interni. La copertura, ad incanniciato e coppi sardi, e retta da un’ordinatura lignea; la volta del primo livello è invece in muratura “a botte” con vele e mensole. Le costruzioni, ordinate in un punto appartato, dalla porta del ponte erano collegate in origine alla città, nel 1600 ancora delimitata dalle mura medioevali. Raggiungibili a piedi, esse erano separate dall’abitato dal corso fluviale; tale distanza faceva sì che parte dei miasmi delle pelli e delle materie concianti venissero eliminati dalla brezza di terra e di mare prima che potessero diffondersi tra le case. Le conce furono costruite sicuramente da muratori bosani, che godevano in passato di un grande prestigio. La severità tipologica esterna riflette l’ordine e la semplicità dell’interno, con gli spazi di lavoro divisi su due livelli, funzionali alle necessità di organizzare la produzione, come anche la sicurezza, in considerazione delle dannose e frequenti (soprattutto un tempo) inondazioni del fiume. L’interno, con l’accesso al piano superiore tramite un corpo scala, è formato da uno o più ambienti comunicanti per via di ampie aperture ad arco. Le grandi finestre, fornite di grate, assicurano alle pelle la costante arieggiatura. L’arredo, semplice, parte in muratura, era diversificato dalla funzione svolta nel piano; in quello terreno erano presenti una serie di vasche (cuzos), costruite in muratura e rivestite in legno di quercia o castagno; il cavalletto (su gallittu) in marmo o legno; il pozzo per l’acqua, che si trovava nella zona delle vasche; i bottali in legno (per la “concia rapida”); i tavoli in marmo; la pressa per eliminare l’acqua e le materie concianti. In un ambiente attiguo (sa domo è sa rusca), si trovava il frantoio dove veniva macinata la scorza (sa rusca) del leccio per ricavarne il tannino: qui erano sistemati i rulli di pietra (sas molas), il più delle volte in basalto della zona est di Crabalza, simili a quelli dei frantoi per olive. Il movimento era impresso da un cavallo, più tardi sostituito da un macchinario a funzionamento elettrico. Al piano superiore l’ambiente diventava più luminoso e maggiormente arieggiato: qui l’arredo era costituito da ganci in ferro ancorati alle travi di copertura; dai tavoli con piano in marmo; dalle macchine per rifinire il lavoro di concia ed in particolare dalla rasatrice, dalla palmellatrice e dal cilindro. Alla parete, in direzione dei tavoli, erano appesi gli attrezzi per le rifiniture manuali (s’istira po istirare, s’istira po arrasare, con lama a due fili; sa palmella, la palmella a mano formata da un tampone di sughero; su cristallu, un cristallo molato dalla parte che poggia sulla pelle; su pettene de ferru, un pettine di ferro). Sempre al piano superiore erano sistemati alcuni cassoni in legno per lo stoccaggio delle pelli ed un peso a bilico per la vendita, oltre che l’ufficio per le attività amministrative (s’iscragnu).

Il ciclo produttivo – Le notizie sul ciclo produttivo possono essere ricostruite attraverso pochi documenti: una serie di fotografie e le informazioni fornite da alcuni testimoni (Francesco Biddau, Anna Sanna Biddau, Paolo Ledda, Serafino Piras). Nel 1800 le pelli usate nelle concerie bosane provenivano dai macelli locali e da varie parti della Sardegna. Nel secondo Dopoguerra, invece, si utilizzarono anche pelli provenienti dall’Africa (Mombasa, Nigeria), considerate di prima scelta. Si conciavano pelli di buoi, vacche, tori, (che davano cuoi grossi per suola e selleria), vitelli e vitelloni (ricercata la vacchetta per le suole fini o le tomaie). Le pelli degli agnelli sardi, ritenute ottime in ambito europeo, venivano conciate all’allume di rocca (concia col pelo per pelliccia, mediante la “concia lenta” se venivano usate per tomaia). Nel secolo scorso le pelli venivano ancora lavorate col metodo della “concia lenta”, ciclo di lavorazione in sei mesi. Tre erano le fasi di lavorazione: 1. Rinverdimento (a modde ) Si immergevano le pelli in acqua; seguiva la messa in calce e la depilazione; in seguito la depilazione a cavalletto (su gallittu): si rimetteva la pelle in acqua e per una seconda volta sul cavalletto, utilizzando su ferru de bussare, si eliminavano poi ulteriori residui di pelo, infine si scarniva. 2. Concia vera e propria con purga e mirto – La purga con escremento di cane produceva l’effetto eliminatorio della calce e dava alle pelli maggior elasticità; successivamente gli escrementi di cane vennero sostituiti con un prodotto (erodina), costituito essenzialmente da un enzima che produceva lo stesso risultato, senza gli inconvenienti igienici e con eliminazione del cattivo odore derivante dal processo tradizionale.
3. Rifinizione: messa a vento.  Gli attrezzi usati erano il tavolo in marmo, s’istira po istirare, s’istira po arrasare, la palmella a mano in legno con un tampone di sughero, su cristallu (un cristallo molato dalla parte che poggia sulla pelle), il pettine in ferro (a quadrigliare).

Il metodo della “concia rapida” prevedeva un ciclo di 45 giorni: esso fu adottato nel 1920 dalla conceria dei Fratelli Sanna Mocci. Le fasi di lavorazione rimanevano sempre tre: rinverdimento in fossa, con acqua (circa 3000 litri). Le pelli interessate erano in numero di 45 dove ciascuna pelle mediamente pesava kg 9. Le pelli erano tenute nelle vasche per 7 o 8 giorni, provvedendo a sostituire la scorza esausta con nuova che aumentava in quantità via via, per un processo di 45 giorni; concia vera e propria: depilazione (in bottale), scarnitura a cavalletto, purga (in bottale), tannino (in bottale), ingrassaggio (in bottale); rifinizione: messa a vento, stiraggio (a mano), rasatrice, palmellatrice, cilindro ed attrezzi già citati per la “concia lenta”, qui però a corrente elettrica.
La descrizione del ciclo produttivo è documentata dalle fotografie realizzate da Salvatore Sanna nel 1958. Con un bastone in legno si giravano le pelli nelle vasche (calcinai) dette cuzos, foderate in legno di quercia o castagno: il legno, materiale coibente, aveva la funzione di mantenere nelle vasche, ad una temperatura costante, le pelli, le quali, immerse in acqua e calce, dovevano essere smosse ogni mattina. Non si dovevano formare bolle d’aria; per evitare questo inconveniente, sulle pelli venivano sistemati dei pesi. Si eseguiva poi il lavoro di scarnitura, al cavalletto (su gallittu), utilizzando un coltello con lama ricurva nella parte concava (ferru de ilmasciare) mentre la pelle era posta con lato carne in alto (palte de sa petta). Nell’ambiente attiguo, erano sistemati quattro tipi di bottale:per ammorbidire con calce ed eliminare il pelo;per ingrassare (con olio di pace);per conciare col tannino (prodotto vegetale estratto dalla corteccia del leccio: col tannino si produceva un cuoio scuro ma eccellente per la suola, senza screpolature, perchè aveva il potere di far precipitare la gelatina e trasformare la pelle in cuoio); un bottalino per pelli piccole che si conciavano in 8-12 ore a seconda della stagione o del tipo di pelle. Sempre nello stesso ambiente si sistemavano le pelli nella pressa e si seguiva un procedimento per l’eliminazione dell’acqua e dei residui delle materie concianti (prendevano parte a questa operazione tutti gli operai presenti nella conceria, di solito almeno sei). Sopra un tavolo si effettuava la stiratura con il coltello a due tagli (si iniziava il lavoro dalla parte della coda); le pelli infine si stendevano sul tavolo di marmo ad asciugare. La fase di rifinitura iniziava dopo che le pelli, sgocciolate e passate alla pressa, venivano appese alle travi del soffitto e disposte in modo che risultassero ben arieggiate. In una prima fase si portavano giù le pelli asciutte e si stiravano con i ferri da taglio, badando di non rovinarne la superficie (si lavorava dalla parte “fiore”). Si rasava quindi la pelle (arrasare), tagliandone le imperfezioni (dibudare) anche di spessore e si passava nella palmellatrice. Il lavoro successivo si svolgeva alla rasatrice; qui si applicava una pastetta (sa pastella) composta da olio di pesce, sapone mantecato e cera; dopo 5 minuti la pasta poteva considerarsi asciutta e pronta per essere ammorbidita; si girava ancora la pelle e si quadrigliava (a rigare) con una macchinetta (stira de arrigare); si girava dalla parte “fiore” (su fiore) opposta alla parte interna (de sa petta), si stendeva, si spargeva il talco in polvere con una spugna. Si prendeva il cristallo e con la pressione delle braccia sull’atrezzo e sulla pelle, ormai liscia, si riusciva a restituirle il colore naturale. Infine, si procedeva alla scelta delle pelli (classificate in 1°, 2°, 3° scelta) che venivano piegate in 4 parti e riposte nei cassoni, ormai pronte per la vendita. Il cilindro veniva usato nell’ultima fase di rifinitura solo per il cuoio da suola. Come ricorda Elio Vittorini in Sardegna come un’infanzia (1931), un servizio periodico di battelli, provenienti da Cagliari, univa i porti commerciali dell’isola. Dal porto di Bosa marina, mediante la ferrovia, le pelli conciate partivano per la penisola o la Francia.

Elisabetta Sanna – dal volume “LE CONCERIE DI BOSA”

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